L’ aspetto straordinario del terrore in Iraq è il silenzio con cui viene accolto in altri Paesi arabi. Zarkawi è emerso dai peccati di omissione e commissione del mondo arabo. Nel modo in cui inveisce contro gli sciiti (e i curdi) esprime quella fatidica incapacità araba di accettare «gli altri». Gli arabi sono afflitti da una terribile condizione, e Zarkawi la espone in modo letale: una dipendenza nei confronti del fallimento e il desiderio di vedere questo progetto americano in Iraq giungere a una fine sanguinosa. La guerra di Zarkawi, va ammesso, non è soltanto la sua; lui uccide e mutila, etichetta gli sciiti come rafida (persone che rinnegano l’Islam), li accusa di tradimento in quanto «collaboratori degli occupatori e dei crociati» ma può essere perdonato in quanto guerriero santo per conto di un mondo arabo più ampio che ha ignorato i suoi crimini, che gli ha concesso la sua approvazione silente. Lui e la banda di omicidi da cui è circondato devono conoscere il significato di questo grande silenzio arabo.
Esiste un cliché che opera una distinzione tra culture di vergogna e culture di colpa, e basandosi su questa distinzione pura e semplice, è sempre stato detto che il mondo arabo è una «cultura di vergogna». Ma in realtà c’è molta poca vergogna nella vita araba circa il ruolo degli arabi nella grande lotta per e con l’Iraq.
Una cultura di vergogna analizzerebbe senza dubbio l’infamia di una classe di funzionari arabi priva di una tradizione di responsabilità, che si concede il diritto di sferrare colpi alla costituzione irachena, respingendola come operato della reggenza americana. Nel mondo arabo si sono stabiliti l’irragionevolezza, l’indifferenza ai fatti più basilari e uno spirito di belligeranza. Coloro i quali, nei Paesi arabi diversi dall’Iraq, hanno definito la Costituzione irachena una «costituzione americana-iraniana», danno voce a un’incoerenza debilitante, al centro della quale si trova una determinazione adamantina di negare agli sciiti dell’Iraq la rivendicazione del loro giusto posto nell’ordine politico del Paese.
I rulli di tamburo contro l’Iraq, che hanno origine dalla Lega degli Stati arabi e dai suoi burocrati, rivelano il panico di una vecchia classe politica araba che teme che in Iraq stia nascendo qualcosa di nuovo: una diversa comprensione del potere politico e della cittadinanza, una probabile rottura con la cultura della tirannia e il culto del «grande uomo» che si occupa degli affari (e della ricchezza) delle nazioni.
È stata una mano fortunata il fatto che il progetto americano in Iraq sia arrivato al salvataggio degli sciiti e dei curdi. Possiamo anche non apprezzare del tutto il cambiamento storico che scateniamo nel mondo arabo, ma abbiamo dato la libertà ai figliastri del mondo arabo. Abbiamo capovolto una struttura di potere materiale e morale che risale a secoli fa.
Per i nemici arabi di questo progetto di salvataggio, la nuova guerra in Iraq è stata la replica di un vecchio dramma: la caduta di Bagdad per opera dei mongoli nel 1258. Nella storia del tempo giunta fino ai giorni nostri, la grande città di cultura, la capitale del califfato di Abbasid, era finita nelle mani di selvaggi, e un’età di splendore era giunta alla sua fine. Secondo la leggenda di quella storia, i mongoli avevano saccheggiato la metropoli, trucidato la sua popolazione, gettato nel Tigri i libri delle sue biblioteche. Gli storici affermano che in quel fiume scorreva sia il sangue delle vittime che l’inchiostro dei libri. La storia selettiva sostiene che si tratta di una storia che parla di tradimento. Un ministro del califfo, uno sciita di nome Ibn Alqami, aprì i cancelli di Bagdad ai mongoli. La storia non si ferma mai qui, ma si sviluppa facilmente: nel suo appello per una nuova guerra santa contro gli sciiti, Zarkawi riprende quella storia, destituisce il governo guidato dagli sciiti definendolo «il governo dei discendenti di Ibn Alqami». Zarkawi conosce il potere di questo simbolismo e del fascino oscuro che esercita nei confronti dei sunniti in Iraq.
I jihadisti di Zarkawi hanno seminato la rovina in Iraq, ma sono stranieri in quel Paese e hanno avuto bisogno del rifugio offerto loro nel triangolo sunnita e dell’indulgenza dei vecchi seguaci del regime di Baath. Per gli ostinati, l’Iraq è adesso un «Paese rubato», consegnato nelle mani di comunità di soggetti inadeguati a regnare. Nonostante siano una minoranza decisa, gli arabi sunniti hanno una coscienza maggioritaria e la convinzione che il dominio politico sia il loro diritto di nascita: invece di incoraggiare una rottura con le vecchie ideologie manichee, il mondo arabo al di fuori dell’Iraq alimenta questo radicato senso di diritto storico. Nessuno ha illusioni su cosa gli arabi sunniti avrebbero fatto se il petrolio si fosse trovato nelle loro province. Avrebbero ripudiato sia il nord che il sud e avrebbero optato per un loro mondo più piccolo che avrebbero difeso a spada tratta. Ma non è andata così, e la loro guerra è il panico di una comunità che teme che potrebbe rimanere con un regno di «ghiaia e sabbia».
Non siamo sempre stati brillanti nella guerra che abbiamo intrapreso, ma il nostro lavoro è stato nobile e necessario e non possiamo fermarci a metà dell’opera. Abbiamo ottenuto il tempo per la riforma e ci siamo radicati in vari regni arabi e musulmani. A parte il salvataggio dell’Afghanistan, il Kuwait e il Qatar hanno proceduto bene con la nostra protezione e il Libano si è riappropriato di gran parte della sua libertà. I più vasti Egitto, Arabia Saudita e Siria sono contesti più difficili, ma anche lì si dovranno accogliere i desideri di cambiamento. Un uomo d’affari kuwaitiano mi ha detto: «L’Iraq, Internet e il potere americano stanno indebolendo il vecchio ordine del mondo arabo. Ogni giorno si registrano nuovi progressi». L’ira contro il nostro lavoro in Iraq dalle chat room dell’Arabia ai bigotti di Finsbury Park a Londra, è situata all’interno di questa lotta più ampia.
L’affermazione secondo la quale la nostra guerra in Iraq, dopo i sacrifici, avrebbe sviluppato una teocrazia sciita, è una calunnia sulla guerra, un’interpretazione errata del mondo sciita da parte dell’Iraq. Nella città santa di Najaf, ai suoi vertici, vi è il timore di ire politiche e un attaccamento alla sobrietà. Il nuovo ordine darà ai giuristi di Najaf loro ciò che vogliono: un luogo nell’ordine morale e culturale dell’Iraq e un’adeguata separazione tra religione e i compromessi della vita politica.
Docente di Relazioni internazionali presso la Johns Hopkins University.
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