L’articolo seguente è di Carlo Jean, Generale degli Alpini a riposo, ex Consigliere Militare del Presidente della Repubblica Cossiga, ex Direttore del Centro Alti Studi della Difesa e del Centro Militare di Studi Strategici. Attualmente, tra i vari incarichi, è Docente di Studi Strategici alla LUISS e di Geopolitica presso il Master in Intelligence & Security della LINK CAMPUS UNIVERSITY. E’ considerato il più grosso esperto di geopolitica e studi strategici italiano.
L’articolo è tratto da EMPORION
I giudizi sulle possibilità di imporre la democrazia sono oggi influenzati dall’opinione di ciascuno sull’intervento americano in Iraq. La ritiene possibile chi resta favorevole alla guerra contro Saddam. Gli danno ragione gli impatti che il conflitto ha avuto sull’Islam, oltre alla convinzione che non esistono alternative per sradicare il terrorismo alle sue radici, se non quello di modificare regimi e società dell’Islam. Il rischio per l’Occidente di lasciare le cose come stanno sarebbe inaccettabile. Le armi di distruzione di massa conferirebbero prima o poi ai terroristi una potenza distruttiva, che in passato possedevano solo i governi. Chi invece sostiene che “la democrazia non si esporta con le baionette”, sottolinea le difficoltà della stabilizzazione dell’Iraq. Il loro numero è aumentato per le polemiche interne agli Stati che sono intervenuti in Iraq a fianco degli Usa. I sostenitori di tale idea fanno saccenti disquisizioni sulla differenza fra le opzioni “militari” e quelle “politiche”. Personalmente, la ritengo senza senso.
Un dibattito oggettivo è comunque difficile. E’ influenzato da ideologie e preconcetti. Al tempo stesso è necessario. Il successo o l’insuccesso della democratizzazione influirà sul futuro di tutti. Nei paesi musulmani le società sono rimaste tradizionali e tribali. Gli Stati non hanno conosciuto un processo di nazionalizzazione delle masse. Molto tenui sono i concetti di cittadinanza e di eguaglianza individuale di fronte alla legge. I diritti collettivi dell’etnia e del clan sono più importanti sia di quelli individuali, che di quelli nazionali. Nella gran parte dell’Islam, il potere è nelle mani di dittatori, sostenuti da guardie pretoriane reclutate nelle loro tribù. Insufficienti sono le garanzie per le minoranze. Il punto centrale del dibattito riguarda la compatibilità dell’Islam con la democrazia, che non è solo una religione, ma anche una regola di vita. Il Corano parla di democrazia. Riflette però la struttura delle società musulmane, che esistevano già al tempo di Maometto. La definisce, infatti, come consultazione dei capi tribù e famiglia. La contrapposizione fra maggioranza e opposizione è sostituita dalla concertazione di varie entità monocratiche al loro interno. Esse sono più solide dei gruppi di interesse e di pressione delle democrazie occidentali. Sono permanenti. Posseggono spesso il potere reale, economico e militare. Attirano l’obbedienza dei loro componenti.
E’ impossibile “fare una democrazia senza democratici”, afferma chi nega che si possa esportare la democrazia, come vorrebbe Bush. La secolarizzazione dell’Islam è impossibile, aggiungono la Fallaci e Huntington. L’Islam moderato è una fantasia pericolosa. Sarebbe prima necessaria una riforma religiosa. Oggi è impensabile. Farebbe esplodere il sistema, dando luogo a violenze e caos. Ma anche il progetto, che non è solo di bin Laden, di restaurare il Califfato per unificare l’Ummah e darle lo slancio iniziale appare irrealistica. Non vi sono quindi alternative agli interventi esterni. Solo essi possono minare il potere delle élites dirigenti, modernizzare l’Islam e formare una classe media. Solo allora sarà praticabile un progetto di democratizzazione di tipo iraniano, con l’alleanza degli uomini d’affari con gli islamisti moderati. Essa potrà promuovere la democrazia dal basso. Ma l’intervento esterno resta indispensabile, per rompere le attuali rigide strutture di potere. E’ quanto sostengono Magdi Allam, Bernard Lewis e Gilles Kepel. L’ha affermato anche Jumblatt in Libano. Il ritiro della Siria deriva dall’intervento americano in Iraq, così come il mutamento libico e i primi timidi tentativi di democratizzazione in Egitto ed Arabia Saudita. Se gli Usa riuscissero a stabilizzare l’Iraq e a normalizzare i rapporti con l’Iran, si produrrà un effetto “domino” su tutto il mondo islamico. I regimi autocratici arabi, “amici” formalmente degli Usa, lo sanno benissimo. Ciò spiega la loro ambivalenza. Per loro, sia un successo che un insuccesso americano in Iraq sarebbero disastrosi. Meglio la continuazione del caos e della guerra. Per tutto l’Occidente è il contrario. Ne fruirebbero anche quelli che vogliono il ritiro immediato delle truppe straniere dell’Iraq.
Carlo Jean