Tra la creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la caduta del regime iracheno di Saddam Hussein nel 2003, la geografia politica del Medio Oriente è rimasta per lo più cristallizzata nei ghiacci della Guerra Fredda. I vasti mutamenti sociali, demografici ed economici che hanno attraversato la regione per decenni sono stati appena notati da regimi dittatoriali fortemente centralizzati, amministrati sulla base di leggi d’emergenza risalenti agli anni Cinquanta. Abbattendone uno e affrontando sfacciatamente la rivolta che ne è seguita, il presidente George W. Bush ha messo in moto gli altri regimi della regione per la prima volta in mezzo secolo.
Di certo, la democrazia si è rivelata per la regione un fattore di cambiamento molto più potente di quanto molti analisti — me compreso —avessero sospettato. Se un tempo gli studenti libanesi interpretavano la libertà nei termini imposti dal nazionalismo arabo sunnita, oggi lo fanno prendendo amodello la rivoluzione democratica ucraina. L’indebolimento delle vecchie dittature, però, metterà in discussione l’integrità di alcuni di quegli stessi Stati che sono sopravvissuti, immuni da disordini, solo grazie alla disciplina imposta dai servizi di sicurezza interni.
In realtà, ancor più dell’Iraq, è la Siria che rischia il collasso. Il panarabismo siriano è valso a sostituire la debole identità dello Stato siriano. «Grande Siria» è un’espressione geografica risalente all’epoca dell’Impero ottomano, individua un’area che i confini monchi della Siria di oggi deturpano e che includeva l’attuale Libano, la Giordania, Israele e Palestina. Da quando la Francia ha separato il Libano dalla Siria nel 1920, i siriani hanno perso la speranza di recuperarlo. Il completo ritiro siriano dal Libano —chiesto dal presidente Bush —minerà la base politica del regime di minoranza alawita di Bashar al Assad, il cui gruppo etnico è spalmato su entrambi i Paesi e la cui sopravvivenza politica dipende dalla capacità di dar prova di uno spirito nazionalista siriano più tenace di quello della maggioranza sunnita.
La Siria non è che la versione levantina dell’ex Jugoslavia—priva della classe intellettuale che l’altro Stato post-ottomano poteva vantare all’epoca della sua frantumazione (poiché il governo di Hafez al Assad è stato tanto più incapace di quello di Tito) —. In Siria, come nell’ex Jugoslavia, a ciascuna setta e religione corrisponde una specifica area geografica. Nel nord, Aleppo è una città-bazar legata da vincoli storici a Mosul e Bagdad più che a Damasco. Tra Aleppo e Damasco pulsa il cuore sunnita sempre più islamista. Tra Damasco e la frontiera giordana si concentrano i Drusi. Le libere elezioni del 1947, del 1949 e del 1954 hanno inasprito queste divisioni, organizzando il voto su basi settarie. Hafez al Assad è salito al potere nel 1970 dopo 21 cambi di governo in 24 anni. Per trent’anni è stato il Leonid Breznev del mondo arabo, respingendo il futuro, masenza saper costruire una coscienza nazionale in una tirannia soffocante. La domanda è: dato che il presidente Bush umilia il debole figlio e successore di Assad, la Siria si rivelerà una versione in grande del Libano della guerra civile?
Le implicazioni per i confinanti Libano e Giordania sono enormi. Una Siria indebolita potrebbe favorire l’emergere di Beirut come capitale economica e culturale della Grande Siria, con Damasco costretta, infine, a pagare il prezzo di un allontanamento in stile sovietico dal mondo moderno durato decenni. Certo, la Grande Siria non sarebbe un nuovo Stato, ma, ancora una volta, una vaga espressione geografica come ai tempi dell’Impero ottomano.
La Giordania resisterebbe a un simile cataclisma meglio di quanto non ci si aspetti, perché la dinastia hashemita—a differenza di quella alawita — ha impiegato decenni a costruire una coscienza statale incoraggiando una élite nazionale unita. Amman trabocca di ex ministri del governo leali alla monarchia giordana— gente che non è stata imprigionata o uccisa in seguito a rimpasti di governo. Il vero problema della Giordania sarà l’integrazione della maggioranza urbana palestinese, appena avvertirà la spinta del nuovo Stato palestinese emergere dai negoziati tra il primo ministro Ariel Sharon e Mahmoud Abbas.
L’indebolimento della Siria non può preludere a nulla di buono per il suo alleato regionale, l’Iran, ormai virtualmente circondato da governi filo-americani in Iraq e Afghanistan e nuove democrazie al nord in posti come la Georgia. La prossima evoluzione politica in Iran dovrà determinare una politica più debole e meno centralizzata — scoprendo, nel nord, il vaso di Pandora delle questioni etniche dei turchi azeri, dei turcomanni e di altri gruppi che vivono al confine tra l’Iran e l’ex Unione Sovietica.
Per gran parte della sua storia, l’Iran si è comportato come un impero informe più che uno Stato, per la ricchezza e il dinamismo propri della cultura persiana. Appena l’Iran si sarà liberato dai legacci puritani e religiosi dei mullah, che piacciono poco alle confinanti repubbliche Centroasiatiche (dove si beve vodka in quantità), la Grande Persia potrebbe riemergere in senso culturale, anche attraverso la capacità di Teheran di stringere alleanze di potere.
Pensiamo alle trasformazioni che deriverebbero da un’evoluzione democratica all’interno del mondo arabo e persiano come alla «Messicanizzazione» del Medio Oriente: il governo di un unico partito con pochi uomini al comando, sarebbe sostituito da un’intera classe politica in cerca di contatti in tutti i Paesi. Stati deboli comportano un carico di lavoro maggiore per i diplomatici, ma non necessariamente anarchia. I parlamenti sarebbero impegnati a risolvere così tanti problemi interni che l’ostilità nei confronti degli Stati Uniti andrebbe attenuandosi — soprattutto nel caso in cui un’evoluzione democratica di questo genere si verificasse contemporaneamente a un accordo di pace israelo-palestinese.
Democratizzazione significa instabilità costante. Pensare che gli arabi siano incapaci di democrazia è una forma di determinismo; ma un pizzico di determinismo, al servizio di un costruttivo pessimismo, è indispensabile. La transizione democratica in Europa centrale, ad esempio, è stata più facile di quella balcanica, in forza di una tradizione asburgica e prussiana di marca occidentale, rafforzata dalla presenza di una estesa borghesia e opposta alla più caotica storia dei Balcani ottomani, dominata dalla classe contadina. Eppure, accostati al Medio Oriente, persino i Balcani appaiono un frammento dell’antico sultanato turco più benestante e meglio governato. Per questo motivo, non aspettarsi numerose difficoltà in tutto il Medio Oriente sarebbe tanto folle quanto sperare in un ingresso militare in Iraq accolto da fiori, anziché dalle armi.
I neoconservatori possono aver peccato di ingenuità sulle condizioni del territorio e le realtà tribali in luoghi come l’Iraq, mahanno dimostrato di comprendere gli effetti della globalizzazione sull’intera regione. Ricordo che nel corso del mio ultimo lungo soggiorno in Libano nel 1998, gli intellettuali non facevano che spiegare come gli sconvolgimenti democratici in Europa centrale potessero fornire un modello al loro Paese. Oggi paragoni di questo tipo sono frequenti. In Medio oriente, l’informazione controllata dal governo si sta lentamente estinguendo. I mezzi di comunicazione che stanno sorgendo al suo posto — giovani, inesperti, spesso irresponsabili, talvolta letali, come nel caso di Al Jazira—stanno liberando dalla bottiglia il genio del dubbio e della ricerca.
I neoconservatori lo hanno intuito, ma occorrerà rivolgersi ai migliori esperti di Medio Oriente per riuscire a gestire le conseguenze di questa situazione. Quella degli esperti americani di Medio Oriente (i cosiddetti «arabisti »), è una tradizione wilsoniana — come quella dei neoconservatori. Nel caso degli arabisti, risale alla fondazione dell’Università Americana di Beirut (AUB) nel 1866, poi denominata College Siriano Protestante. Durante la Guerra Fredda, gli arabisti hanno propugnato allaAUBe altrove nel mondoarabo i valori wilsoniani, all’epoca interpretati attraverso il prisma delle aspirazioni nazionali degli arabi sunniti palestinesi. Gli arabisti ritenevano che i sunniti fossero capaci di un governo illuminato esattamente come gli israeliani. L’amministrazione Bush ha adottato questa linea non soltanto in Palestina, ma in tutta la regione. Sarebbe storicamente e filosoficamente ironico se gli esperti di Medio Oriente del Dipartimento di Stato oggi non fossero della stessa idea dei neoconservatori.
© 2005 by Robert D. Kaplan. Pubblicato sul Wall Street Journal. Tutti i diritti riservati. Kaplan è l’autore di numerosi saggi tra cui «Mediterranean Winter» e «Warrior Politics» (Traduzione di Maria Serena Natale)
Robert D. Kaplan
scrittore e giornalista, è corrispondente di «Atlantic Monthly»
18 aprile 2005