20 Responses

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  3. http://www.difesa.it/Sala+Stampa/Rassegna+stampa+On-Line/PdfNavigator.htm?DateFrom=13-01-2011&pdfIndex=20 
  4.  
  5.  
  6. 13/01/2011  – "GIORNO/RESTO/NAZIONE", Pag. 7
    L'ASCESA DI BEN ALI "L'ETERNO" CON L'AIUTO DI CRAXI E DEL SISMI
    di: LORENZO BIANCHI  
  7. B.A.
  8.  
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    utente anonimo at |
  • 15/01/2011  – "IL FOGLIO", Pag. 1
    UN GOLPE DA LONTANO
     
  • http://www.difesa.it/Sala+Stampa/Rassegna+stampa+On-Line/PdfNavigator.htm?DateFrom=15-01-2011&pdfIndex=9 
  • B.A.
  •  
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    Silendo at |

    L'analisi di Mauro Gilli:
    http://epistemes.org/2011/01/17/alcune-riflessioni-sugli-avvenimenti-in-tunisia/

    "La situazione in Tunisia è in constante cambiamento. Dopo la decisione del presidente Zine El-Abidine Ben Alì di lasciare il paese, trasferendo i poteri presidenziali al primo ministro Mohamed Ghannouchi, quest’ultimo ha a sua volta passato lo scettro al presidente del parlamento. In questo contesto è difficile fare previsioni su quali saranno gli sviluppi successivi. E’ possibile, però, riflettere sulle cause che hanno portato un dittatore ad abbandonare il suo paese, e su quelle che non hanno giocato alcun ruolo.
    La rivolta è partita per motivi materiali tanto banali quanto importanti: l’alto prezzo di alcuni generi alimentari e le scarse opportunità per una popolazione giovanile in constante crescita e con un crescente livello di educazione – proprio come Samuel Huntington aveva spiegato nel suo Political Order in Changing Societies. Questi motivi hanno permesso alle masse di superare il “collective action problem” che ogni rivolta si trova a dover superare: i vantaggi della protesta vengono condivisi da tutti, anche da chi non vi partecipa, mentre i costi (essere arrestati o addirittura uccisi durante gli scontri) se li sobbarcano soltanto quelli che scendono in piazza.
    Cosa ha permesso ai tunisini di vincere la prima battaglia, costringendo il presidente addirittura a lasciare il paese? La risposta è semplice: la loro forza relativa. I numeri sono dalla parte dei manifestanti. Più del 40% della popolazione ha meno di 30 anni. In più, senza vaste risorse naturali, il modello “Saddam Hussein” non era un’opzione: non è possibile comprare quella parte dell’amministrazione pubblica necessaria per tenere il resto del paese sotto scacco. Nessun autocrate può mettersi contro metà del paese, senza avere i mezzi per farlo. Infine, la Tunisia non è un paese a sovranità limitata (come il Libano o la Bielorussia) e non è nella sfera di influenza di alcuna grande potenza (diversamente dall’Arabia Saudita, per esempio). Quindi, cacciato Ben Alì, i manifestanti non si sono trovati a dover lottare contro alcuna forza straniera. Questo spiega, in modo molto semplice, perchè la rivolta in Tunisia ha avuto un iniziale successo.
    Questo è forse l’aspetto più interessante e politicamente rilevante di tutta la vicenda. Con buona pace per le manie di protagonismo delle élites europee e americana quando si tratta di promozione della democrazia, la rivolta in Tunisia è iniziata in modo autonomo, e si è sostenuta autonomamente. Non c’è stato alcun premio Nobel per la pace assegnato ad un oppositore politico a far scatenare le manifestazioni. Non c’è stata alcuna pressione internazionale a innescare l’incendio, né da parte di stati né da parte di organizzazioni internazionali come l’ONU. Lo stesso si può dire per le organizzazioni non-governative come Human Rights Watch, Amnesty International e via dicendo: questi sono i grandi assenti degli avvenimenti di Tunisi.
    Diversamente da quanto sembra suggerire Marta Dassù – alla quale sembrano sfuggire le cause e le conseguenze di quanto sta avvenendo – il dato importante da trarre è proprio la mancanza di interferenza occidentale: i tunisini si sono liberati da soli, non solo malgrado la mancanza di interferenza occidentale, ma per via della mancanza di interferenza occidentale! In Tunisia non ci sono truppe straniere a garantire che la situazione non degeneri ulteriormente in una guerra civile hobbesiana. Ciò è particolarmente importante per due motivi. In primo luogo, le forze reazionarie non hanno potuto accusare eventuali “forze oscure” per i problemi del paese, la violenza e la morte. In secondo, se la piazza riuscirà ad imporre un sistema più aperto e democratico, questo non dovrà la sua esistenza al supporto esterno. Sarà, in altri termini, una pianta che vive di linfa propria. I tunisini hanno vinto la prima battaglia perchè i numeri sono dalla loro parte. Ci auguriamo tutti che possano riuscire a vincere anche la guerra."

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    utente anonimo at |

    caro Sil, premesso che l'articolo di Gilli riporta delle considerazioni molto interessanti sulla situazione in Tunisia, ho l'impressione che l'autore pecchi di presunzione nell'escludere l'ingerenza* esterna nella crisi.

    cosa ne pensi al riguardo?

    barry lyndon

    * per ingerenza intendo qualsiasi forma di intromissione nelle dinamiche della crisi, anche da parte di "non-state actors".

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    Silendo at |

    Carissimo Barry, allo stato attuale delle mie personalissime (e limitate) conoscenze tenderei ad escludere una consistente attività di ingerenza.
    Tieni presente però che non sono in loco, mi limito a leggere la stampa e non dispongo di informazioni riservate ;))

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    utente anonimo at |

    L'articolo sembra tratto dalla Pravda. Comunque, battute a parte, solo un bambino ingenuo potrebbe credere che sia una rivolta spontanea. Ci sono due soggetti che potrebbero aver fomentato le proteste, uno in modo quasi certo, e cioè l'islam radicale, e l'altro a livello di intuizione/supposizione, e cioè la Cina.

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    AllegraBrigata at |

    "solo un bambino ingenuo potrebbe credere che sia una rivolta spontanea"

    da persona adulta quali elementi hai a sostegno della tua tesi?

    A.

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    utente anonimo at |

    Caro Allegra Brigata, grazie per la domanda.

    Per prima cosa invito a leggere tutto il link del commento 1.

    In secondo luogo, segnalo che la Tunisia ha il pil pro capite più alto del Magreb dopo la Libia, e cioè oltre 10000 dollari procapite, praticamente due terzi del pil procapite di un cittadino calabrese medio, e quindi mi sembra difficile che con 10000 dollari al mese, pur con l'aumento dei prezzi della farina del 20%, si possa letteralmente morire di fame.

    In terzo luogo, in un sistema sostanzialmente autoritario come quello della Tunisia fino alla settimana scorsa, proprio per il controllo serrato sui mass media, l'unica "zona" della società in cui potesse coagularsi un qualche malcontento erano le moschee attraverso le predicazioni degli imam (come avviene in tutti i Paesi di religione musulmana).

    In quarto luogo, la Tunisia era fino alla settimana scorsa un Paese sotto l'influenza sostanziale della Francia e dell'Italia, con cui infatti ci sono dei rapporti economici molto sviluppati. Per la sua posizione strategica a qualcuno potrebbe convenire che questa influenza cambiasse a favore di altre entità.

    In quinto luogo, parlo anche per esperienza personale e non solo per notizie lette sui quotidiani.

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    AllegraBrigata at |

    Prego.
     Ho letto il link da te segnalato e non mi trova assolutamente d'accordo. A parte questo ciò che scrivi mi sembra più frutto di deduzioni, ipotesi che non di informazioni specifiche.

    esempio: "mi sembra difficile che con 10000 dollari al mese, pur con l'aumento dei prezzi della farina del 20%, si possa letteralmente morire di fame"
    e quindi? il fatto che sembri difficile una cosa non rende automaticamente vera un'altra 😉
    oltretutto non mi pare che tra le motivazioni ritenute alla base della rivolta ci sia SOLO la fame…

    "l'unica "zona" della società in cui potesse coagularsi un qualche malcontento erano le moschee attraverso le predicazioni degli imam (come avviene in tutti i Paesi di religione musulmana)."
    ok, realtà ben nota in determinati Paesi ma ti rendi conto pure tu che questo punto è un'ipotesi… non dici nulla di che, insomma.

    "la Tunisia era fino alla settimana scorsa un Paese sotto l'influenza sostanziale della Francia e dell'Italia, con cui infatti ci sono dei rapporti economici molto sviluppati. Per la sua posizione strategica a qualcuno potrebbe convenire che questa influenza cambiasse a favore di altre entità"
    qualcuno la chiama politica internazionale 😉 ma chi sarebbe questa entità? la cina? e come ha agito? attraverso quali leve e strumenti?

    capiamoci…io non escludo alcunchè ma direi che quando si dà per certa una cosa o la si può dimostrare o forse è meglio evitare di darla per certa 😉

    A.

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    ne approfitto per chiedere ai lettori più scafati cosa pensino del blog di g71; senza entrare nel merito dei singoli episodi, mi piacerebbe sapere se ritengono verosimili le macro-dinamiche, come la presenza di reparti operativi del SID in teatri quali l'indocina, l'angola e simili. Scusate per l'OT e grazie a chi vorrà rispondere

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    utente anonimo at |

    Pongo una domanda:
    se nel 2009 la Tunisia  è risultata tra i 5 paesi africani che hanno attratto più investimenti cinesi
    ( http://www.ansamed.info/it/tunisia/news/MI.XAM57660.html),
    per  quali motivi lorsignori avrebbero avuto interesse a defenestrare Ben Alì?
    Linus
     

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    Il dato sugli investimenti cinesi non esclude ma semmai conferma l'ipotesi di un interessamento della Cina al cambio di leadership. La Tunisia era un Paese aperto a tutti gli investimenti esteri perché a differenza della Libia non è ricca di materie prime e quindi l'unico modo er far crescere l'economia è quello di attrarre imprese dall'estero.

    Il rammarico è che l'Italia non presti la dovuta attenzione a quanto sta succedendo e non vorrei che questo determinasse conseguenze negative in futuro visto che il nostro paese dista in linea d'aria 200 km dalla Tunisia.

    Sicuramente la Cina, pur non essendo coinvolta direttamente (ma non può escludersi categoricamente neanche questo), guarda con interesse alla nascita di un ipotetico regime tipo-sudan del nord, che le sia del tutto succube in cambio di denaro. D'altronde il fatto che la Cina si stia muovendo sottotraccia nell'area è ormai evidente: è infatti proprio la Cina l'ideatore del referendum in Sudan per poter stabilizzare l'area in modo di poter meglio sfruttare le risorse petrolifere presenti in loco.  

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    utente anonimo at |

    Anonimo, quel che è certo mi pare sia la  voglia di libertà e di nuovo dei giovani (metà popolaz) tunisini.
    Hai modificato il tuo punto di vista (dalla cina sospettata di essere fomentatrice alla cina interessata al cambiamento).
    Perchè il dato sugli investimenti confermerebbe la tua ipotesi?
    Non mi pare che si tratti di un mero cambio di leadership, bensì della fine di un regime.  Chi investe vuole stabilità, solitamente. O no?
    Linus

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    Silendo at |

    Secondo me si sopravvalutano un tantino le capacità cinesi 😉
    Anche io, poi, non colgo il nesso tra interscambio commerciale e interesse (o addirittura diretto coinvolgimento) nel cambio di leadership in Tunisia.

    Concludo facendo notare che il Sudan è un realtà un po' differente dalla Tunisia, sotto tanti punti di vista… :)

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    Silendo at |

    Where Were the Tunisian Islamists?
    http://www.nytimes.com/2011/01/22/opinion/22iht-edroy22.html?_r=1

    FLORENCE — The novel characteristic of the first peaceful popular revolution to topple a dictatorship in the Arab world is that there is nothing Islamic about it.

    The young Tunisian street peddler who triggered the revolt by publicly burning himself reminds us of the Vietnamese Buddhist monks in 1963 or of Jan Palach in Czechoslovakia in 1969 — an act of precisely the opposite nature from the suicide bombings that are the trademark of present Islamic terrorism.

    Even in this sacrificial act, there has been nothing religious: no green or black turban, no Allah Akbar, no call to jihad. It was instead an individual, desperate and absolute protest, without a word on paradise and salvation. Suicide in this case was the last act of freedom aimed at shaming the dictator and prodding the public to react.

    In the street demonstrations that followed, there was no call for an Islamic state, no white shroud put by protesters in front of the bayonets as in Tehran in 1978. And, most striking, no “down with U.S. imperialism.” The hated regime was perceived as an indigenous one, the result of fear and passivity, and not as the puppet of French or U.S. neocolonialism, despite its endorsement by the French political elite.

    Instead, the protesters were calling for freedom, democracy and multi-party elections. Put more simply, they just wanted to get rid of the kleptocratic ruling family.

    At the end, when the real “Islamist” leaders returned from exile in the West (yes they were in the West, not in Afghanistan or Saudi Arabia), they, like Rached Ghannouchi, spoke of elections, coalition government and stability, all the while keeping a low profile.

    Have the Islamists disappeared?

    No. But in North Africa, at least, most of them have become democrats. True, fringe groups have followed the path of a nomadic global jihad and are roaming the Sahel in search of hostages, but they have no real support in the population. That is why they went to the desert.

    Nevertheless, these highway robbers are still branded as a strategic threat by Western governments at a loss to design a long-term policy. Other Islamists have just given up politics and closed their door, pursuing a pious, conservative, but apolitical way of life. They put a burqa on their lives as well as on their wives.

    But the bulk of the former Islamists have come to the same conclusion of the generation that founded the Justice and Development Party in Turkey: There is no third way between democracy and dictatorship. There is just dictatorship and democracy.

    This acknowledgement of the failure of political Islam has met the mood of the new generation of protesters in Tunisia. The new Arab generation is not motivated by religion or ideology, but by the aspiration for a peaceful transition to a decent, democratic and “normal” government. They just want to be like the others.

    The Tunisian revolt helps clarify a reality about Arab life: The terrorism we’ve seen over the past few years, with its utopian millennialism, doesn’t stem from the real societies of the Middle East. More Islamic radicals are to be found in the West than at home.

    To be sure, the picture differs from country to country. The post-Islamist generation is more visible in North Africa than in Egypt or Yemen, not to speak of Pakistan, which is a collapsing country. But everywhere in the Arab Middle East, the generation that is leading the protest against dictatorship does not have an Islamist character.

    This is not to say there are no big challenges ahead. There are indeed many: how to find political leaders who can live up to popular expectations; how to avoid anarchy; how to reconstruct political and social bonds that have been deliberately destroyed by dictatorial regimes and rebuild a civil society. But there is at least one immediate question raised by the Tunisian revolution.

    Why is the West still supporting most of the Middle East dictatorships even as this democratic surge roils across the region?

    The answer in the past, of course, has been that the West sees authoritarian regimes as the best bulwark against Islamism. That was the rationale behind its support for the cancellation of the elections in Algeria in 1992, for turning a blind eye on the rigging of the Egyptian elections, and for ignoring the choice of the Palestinians in Gaza.

    In light of the Tunisian experience, this approach must be re-evaluated. In the first place, these regimes are no longer a reliable bulwark. They could just collapse at anytime. Second, what are they a bulwark against if the new generation is post-Islamist and pro-democratic?

    Just as Tunisia has been a turning point in the Arab world, so too it must be a turning point in the West’s policy toward the region. Realpolitik today means supporting the democratization of the Middle East.

    Olivier Roy is a professor at the European University Institute in Florence and the author of “Holy Ignorance” and “The Failure of Political Islam.”

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    Trovato nel web potrebbe essere interessante…

     

    “Operazione Tunisia”: la rivoluzione nel web

     

    Nella lettera aperta indirizzata a tutti i media, una “legione anonima” accoglie le richieste del popolo tunisino e avvisa che lancerà una serie di attacchi ai siti governativi: la censura di Ben Ali è ormai considerata “oltraggiosa”

     

     

     

     

    Nel dicembre scorso il Comitato internazionale di Protezione dei Giornalisti condannava 1 i governi di Tunisi e Riad per aver bloccato i siti che diffondevano i cabli di Wikileaks. Oggi, presidente in fuga e guerriglia per le strade, la Tunisia sconta anche il nuovo potere dei media sociali e la nota stabilità del regime di El Abidine Ben Ali sembra sacrificata sull'altare di una cyber-guerriglia.

     

    Contenevano critiche al presidente tunisino, così i cabli di Wikileaks sono stati ritenuti pericolosi e bannati i siti che li divulgavano, ovvero la versione on line del libanese al Akhbar e l'indipendente Aleph. Un forbidale sistema di censura preventiva on line già da tempo teneva l'informazione tunisina sotto diretto controllo delle autorità governative. L'indice di libertà di stampa che Reporters Without Borders assegna alla Tunisia la colloca la 164° posto della graduatoria mondiale di 178 paesi. La Bbc2 riporta che il firewall impiegato dalle istituzioni governative ha il nickname di “Amaar 404”, in riferimento al messaggio di “Errore 404” che si visualizza quando una pagina non è accessibile. Un blocco efficacissimo che eleva la Tunisia anche tra i quindici “nemici di Internet”3, assieme a Cuba, Arabia Saudita, Cina e Libia, veri paesi-incubo per il “cyber dissent”.

     

    Eppure, in questa vicenda, proprio la censura rende al web un ruolo decisivo. La crisi tunisina si manifesta il 17 dicembre con una dimostrazione in piazza. Riporta la Bbc che i media domestici le danno scarso rilievo, quelli internazionali la presentano come una generica protesta per disoccupazione. Ma da poco più di due settimane si stava incredibilmente surriscaldando la situazione nel web. Tra novembre e dicembre circolano i cabli di Wikileaks. Tra questi vi sono le note diplomatiche dell'ambasciatore Usa a Tunisi, Robert Godec, che parlano di un presidente corrotto e distante dal popolo; lui e la sua amministrazione sarebbero incapaci di ricevere consigli o critiche e di gestire la sicurezza senza ricorrere alla polizia. Il governo tunisino, per evitare che il presidente sia messo in cattiva luce, blocca l'accesso domestico ai siti che diffondevano i cabli Usa e vi lancia contro diversi attacchi. Nel frattempo, inasprisce le misure repressive su i bloggers dissidenti. Si scatena la cyber guerrilla.

    Scatta l' ''operazione Tunisia4”. Annunciata con una lettera aperta rivolta a tutti i media, l'ondata di attacchi condotta da “anonimi che hanno raccolto la richiesta di aiuto del popolo tunisino” è stata sferrata contro siti governativi, borsa nazionale e altri importanti server tunisini, impiegando il Distributed Denial of Service (DDoS, ovvero divulgare il messaggio di impossibilità di connettersi alla pagina richiesta). L'intenzione degli autori, che si definiscono “una legione anonima che non perdona e non dimentica” è di coinvolgere i media mondiali, responsabili di dare notizie che i media sotto censura non sono in grado di dare. La reazione governativa non si è fatta attendere. Sono state bloccate le divulgazioni delle cronache estere on line – bannate in quei giorni Bbc e Al Jazeera – sulle proteste in corso (sono tornate visibili solo dopo l'arrivo di Ben Alì in Arabia Saudita); molti utenti internet riferiscono che le loro password sono state modificate e manipolati i profili di Facebook; almeno cinque i bloggers arrestati, così come la cantante hip hop Ben Aoun, autrice del brano “Presidente, la tua gente è morta”. Mentre a Tunisi impazzava la guerriglia per le le strade, il web veniva bloccato per ventiquattro ore. Facebook è stato fortemente limitato e, come gli autori della lettera anonima riportano, anche Flickr e siti di mail sono sotto “oltraggioso” controllo da parte delle autorità governative; le quali, tuttavia non hanno mai eliminato del tutto i servizi.

     

    In Tunisia, infatti, il livello di accesso ad internet è elevatissimo: il 34% della popolazione tunisina ha accesso al web5 e circa due milioni di cittadini usano Facebook: una proporzione davvero rilevante nel mondo arabo. Questo sarebbe un aspetto critico per la stabilità del regime. Durante le proteste di questa crisi infatti un flusso continuo di immagini, video e cronache è circolato su Faceebok, Flikr e YouTube raccogliendo commenti e impressioni da tutto il mondo. Post in diverse lingue, francese, inglese, arabo hanno testimoniato un coinvolgimento straniero e l'interessamento estero ha rafforzato la causa tunisina: fame e disoccupazione, ma anche repressione intellettuale e della libertà di stampa. La divulgazione di fatti scomodi e la solidarietà internazionale hanno aperto un vulnus nell' establishment tunisino, abituato a gestire il consenso interno tramite un controllo serrato sull'informazione interna e sull'imagine del paese all'estero.

     

    Il sito di Al Jazeera English riporta il commento solidaristico di Gheddafi6, dispiaciuto per l'esito di questo braccio di ferro: secondo il colonnello il popolo tunisino è vittima di bugie di chi vorrebbe prendere i posto di Ben Alì, il migliore dei presidenti possibili per la Tunisia.

     

     

     

     

    Cecilia De Luca

    1http://cpj.org/2010/12/after-running-leaked-cables-websites-face-harassme.php

    2http://www.bbc.co.uk/news/world-africa-12180954

    3http://en.rsf.org/the-15-enemies-of-the-internet-and-17-11-2005,15613.html

    4http://www.pdf-archive.com/2011/01/04/an-open-letter-to-all-media/an-open-letter-to-all-media.pdf

    5http://www.socialbakers.com/facebook-statistics/tunisia

    6http://english.aljazeera.net/news/africa/2011/01/2011117244693773.html

    FOLGORE
    Fol 

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    "The Tunisian Revolution", documento IAI.

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    "Perchè sono affari nostri" di Pino Buongiorno (Panorama).

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