dal Corsera di ieri
Quando Falcone sosteneva la separazione delle carriere
di Felice Cavallaro
C’ è un libro scomodo che ripropone una lettura degli anni bui della Palermo di Falcone e Borsellino vista da vicino, anzi da vicinissimo. Perché a scriverlo in prima persona, parlando dei suoi due amici uccisi dalla mafia, e dell’ esperienza del pool fondato da Rocco Chinnici, è uno della squadra, Giuseppe Ayala, il pubblico ministero del primo maxi processo che aveva firmato (tra l’ altro) le richieste d’ arresto per Ciancimino e i Salvo. È come rivedere quegli anni alla moviola scoprendo gli sgambetti e le imposture coperte dalla retorica corrente di un pezzo di antimafia ben distante dai protagonisti di Chi ha paura muore ogni giorno (Mondadori, pagine 200, 17,50). E l’ opera di Ayala diventa scomoda non solo per gli assassini individuati e processati, ma anche per quanti si sono affrettati a santificare Falcone soltanto dopo la strage di Capaci ignorando quanto diceva e criticando quanto aveva fatto negli ultimi mesi di vita. Misteri e intrighi di mafia, politica e servizi segreti deviati, casseforti svuotate, agende e diari spariti puntellano una ricostruzione centrata su eroi raccontati come mai nessuno prima. Con le ironie e l’ allegria cameratesca che riusciva a penetrare nel bunker dove si preparava il maxi processo. Un racconto a tratti spassoso, come sa essere Ayala. Acuto, preciso, fulminante, mai cupo e tenebroso come tanti suoi colleghi amano mostrarsi, schiacciati dai pesi del mondo. Sono i suoi ricordi e gli atti che richiama a diventare spesso scomodi. Anche su materie rimaste sospese. A cominciare dalla separazione delle carriere fra magistrati di procura e giudici di tribunale. Ayala cita Falcone e parla di «una indubbia anomalia rappresentata dall’ unicità delle carriere, estranea, non a caso, a tutti gli ordinamenti dei più importanti Paesi occidentali». Insomma, «la separazione non ci scandalizzava affatto». Anzi, sembrava loro «auspicabile». Come una revisione del principio dell’ obbligatorietà dell’ azione penale. Ecco i due tabù che provocano ancora oggi l’ alzata di muri massicci nell’ Associazione magistrati e nel Csm. Due entità contro cui lancia saette Ayala, pronto a ribadire di pensarla ancora come Falcone, convinto nel 1989 che una politica contro la criminalità «non può essere lasciata alle scelte, prive di adeguati controlli, dei capi degli uffici – o peggio dei singoli magistrati – senza alcuna possibilità istituzionale di intervento». Le amarezze più grandi furono quelle provocate da chi accusava Falcone di «tenere i segreti nel cassetto». Ma qualcuno lo difese. E Ayala esalta Cossiga e Chiaramonte. Cancellando la leggenda della «toga rossa» con un richiamo diretto alla mancata nomina di Falcone a Superprocuratore antimafia: furono i comunisti, diventati Pds, che «lo osteggiarono apertamente, puntando su un candidato alternativo». E infine, sferzante, contro Luciano Violante che poi definì quelli «gli anni della disattenzione»: «Fu tutt’ altro che disattento. A me non la racconta. Cerchi un’ altra parola per dar conto del cinico trattamento riservato da lui e dal suo partito a Giovanni in quelle che sarebbero state le sue ultime settimane di vita».
Se non ci fosse il familismo chissa quanti ragazzi vorrebbero diventare come il grande Falcone. Purtroppo soltanto pochi posso aspirare a tale ruolo, sempre della stessa colorazione, e i Falcone rimangono mosche bianche.
Se non si permette a tutti di fare l’Italia, il risultato e’ quello di creare un paese artificiale, basato sul niente.
—saluti—Pinuccio