Le difficoltà di al Qaeda

Carlo Bonini, in un articolo pubblicato oggi su La Repubblica, dà conto delle difficoltà interne al network qaedista e dell’allontanamento dalla linea di Bin Laden e Zawahiri di alcuni importanti esponenti religiosi jihadisti.
Riporto qui di seguito l’articolo di Bonini. Qui, invece, il link ad una interessantissima inchiesta di Lawrence Wright pubblicata ai primi di questo mese su The New Yorker. Infine, qui il collegamento ad un precedente post sullo stesso argomento.

Lorda del sangue dei suoi nemici, ma soprattutto di quello dei suoi fratelli, Al Qaeda sta perdendo la battaglia delle idee e della fede. Il suo autunno è cominciato. La crepa aperta dalle prime dissociazioni dei suoi chierici può farsi voragine, modificando per sempre la natura dell´organizzazione così come abbiamo imparato a conoscerla, la sua stessa capacità di penetrazione e contagio nelle madrasse d´Oriente, nelle enclave musulmane d´Occidente: Inghilterra, Spagna, Italia, Francia. Le cose stanno davvero così?

Iniziata ai primi di giugno come un soffio, come l´affilata intuizione di Peter Bergen e Paul Cruickshank, eccellenti ricercatori del «Center for Law and Security» della New York University, il cui lavoro ha trovato spazio sulla copertina del settimanale The Nation, l´affermazione si è fatta tempesta in sole tre settimane. Conquistando la stampa inglese (Economist, The Indipendent), e mettendo a rumore i circoli dell´intelligence americana ed europea.

Nel suo ufficio alla «New America Foundation», think-tank di Washington, Bergen usa l´indicativo: «È così. Al Qaeda sta perdendo la sua base di consenso popolare, perché ha cominciato a perdere la sua battaglia religiosa. Le dissociazioni di Noman Benotman, ex leader del Gruppo Islamico combattente libico, e, soprattutto, di Sayed Imam Al-Sharif, alias “dottor Fadl”, sono più di un indizio. Sono la parte emersa dello scollamento di quella base religiosa che, nel tempo, ha dato agli occhi dell´Islam legittimità alla dottrina jihadista declinata da Osama Bin Laden e Ayman Al-Zawahiri. Sono il segnale di un´implosione in atto che spiega altrimenti quanto certa propaganda occidentale vorrebbe, al contrario, attribuire ai successi della politica della Casa Bianca in Medio Oriente».

È storia degli ultimi mesi. Dal chiuso di una prigione egiziana in cui è rinchiuso, Sayed Imam Al-Sharif, mentore di Al Zawahiri negli anni della sua formazione, amico personale di Osama Bin Laden dal tempo del suo esilio in Sudan (1993), ma soprattutto custode delle ragioni del radicalismo islamico e levatore di quel grumo di violenza religiosa che prenderà solo più tardi il nome e la forma di Al Qaeda, licenzia un libro, «Razionalizzazione della Jihad», che viene pubblicato a puntate da un quotidiano del Cairo. A sollecitare il suo lavoro – scrive lui stesso – sono «le gravi violazioni della legge della Sharia avvenute negli ultimi anni per mano di chi, nel nome della Jihad, ha ucciso a centinaia musulmani e non, compresi donne e bambini».

La Sharia – argomenta il chierico – è stata tradita dall´apostasia della dottrina del Takfir, la legge che muove gli assassini di Al Qaeda, in nome di una interpretazione che si pretende esclusiva del Corano. La stessa che attribuisce al Profeta ciò che il Profeta mai ha detto, come giustificare il mezzo con il fine, dunque anche la morte dell´infedele attraverso quella del fratello musulmano. «Al-Zawahiri e il suo emiro Bin Laden sono immorali», conclude il “dottore” nel novembre dello scorso anno, in un´intervista al quotidiano Al-Hayat.

La profondità della ferita aperta da Sayed Imam Al-Sharif è nella reazione furibonda e al tempo stesso preoccupata di Al-Zawahiri. L´ex discepolo, in un messaggio registrato del dicembre scorso, liquida il suo ex maestro come traditore e ventriloquo del regime di Hosni Mubarak, gli dedica nel marzo scorso un libro – «L´Esonero» – che ne dovrebbe confutare le tesi, liquidandole come «il tentativo disperato di chi prova a contrapporsi alla marea montante del risveglio della Jihad». La verità è che le parole di Al-Sharif hanno lavorato e lavorano in profondità nell´epicentro così come ai margini di quella struttura nuova e allargata di Al-Qaeda che, all´indomani dell´invasione dell´Afghanistan, aveva scommesso proprio sullo spontaneismo jihadista e sull´attribuzione in franchising del suo marchio quali fattori di successo della strategia del Terrore.

Del resto, l´esempio di Al-Sharif non resta il solo. Noman Benotman, ex leader del Gruppo Islamico combattente libico, rompe con Al Qaeda e, nel 2007, convince ciò che resta della sua organizzazione a chiudere accordi di pace con il regime del colonnello Gheddafi. E questo mentre i pochi sensori demoscopici ciclicamente utilizzati per misurare la febbre del radicalismo nei paesi musulmani (quelli del prestigioso centro americano Pew Global Attitudes project) fanno registrare significativi smottamenti nel sostegno dichiarato ad Al Qaeda: dal 73 al 39 per cento della popolazione in Libano, dal 27 al 15 in Indonesia, dal 40 al 13 in Marocco.

Peter Bergen si fa serio. «Tutto questo, evidentemente, non autorizza a pensare o anche soltanto immaginare che la minaccia di Al Qaeda sia attenuata. Anzi, se proprio vogliamo immaginare a breve un esito di questo processo, che è e resta di medio-lungo periodo, dobbiamo sapere che un´organizzazione che sta perdendo la battaglia, come diremmo in Occidente, per vincere i cuori e le menti del suo popolo, è un´organizzazione capace di qualunque atrocità. O, comunque, spinta alla ricerca di un prossimo obiettivo privilegiato in grado di ricompattare i suoi militanti. E a pensare a Israele non credo si sbagli».